Sono momenti particolari quelli attuali, il tempo potenzialmente impiegabile nelle attività mototuristiche si è notevolmente ridotto impiegato in attività di ben altra natura ma di ben maggiore soddisfazione, per questo ogni qualvolta si presenta l'occasione di una uscita di qualsiasi genere l'imperativo è di godersela al meglio anche a prescindere dalle esigenze altrui, in un impeto di di sano egoismo ben compreso dagli Amici di viaggio. Maia esce dal suo ricovero alle ore 6.30, ormai ben poco impressionata dalle luci tenui dell'alba, in questo frizzante mattino di novembre, la scusa dell'annuale pranzo a base di funghi sulle pendici dell'Appennino Emiliano mi ha permesso di improvvisare un itinerario alternativo per raggiungere la meta comune che comprenda alcune zone da tempo poste sotto attenzione ma mai percorse, una su tutte quella Foce Del Giovo più volte vagheggiata e sempre sfuggita per vari motivi alle mie pressanti attenzioni. |
Abbandono il deprimente percorso autostradale prima del previsto a Chiesina Uzzanese, sulla mappa ho individuato un percorso che mi porterà da Collodi fino all'ingresso in Garfagnana in quel di Bagni di Lucca superando un basso valico che costeggia l'altopiano delle Pizzorne, tracciato sicuramente più avvincente dell'ormai abusato Lucca-Borgo a Mozzano.
I raggi del sole ancora orizzontali incendiano i rami che scortano il mio passaggio, le foglie ancora caparbiamente appese al loro stanco supporto colorano i quadri di un bravissimo macchiaiolo appesi in una infinta galleria che si snoda davanti ai miei occhi, oltre il valico le vette ambiziose delle Apuane sovrastano il creato facendosi largo tra le nuvole.
Raggiunta Bagni di Lucca non cedo alla tentazione di una nuova deviazione dal tracciato originario, teoricamente dovrebbe essere possibile raggiungere la strada per il valico di foce a Giovo anche passando da Montefagatesi ma la strada è riportata, sterrata, solo in una delle mappe che ho a disposizione e non ho voglia di impiegare il poco tempo a disposizione per affrontare uno sterrato insignificante rispetto alla meta principale del mio odierno viaggio, alle ore 11.30 mi attendono a Ligonchio ed io ancora non ho la più pallida idea di cosa mi attende lassù.
FORNOLI
Attraverso Fornoli e imbocco la strada che sale al passo e che conduce anche a quella celebre manifestazione naturale conosciuta come l'Orrido di Botri, imponente Gola calcarea riserva naturale fin dal 1971, dopo pochi chilometri in salita il paesaggio intorno a me si nasconde dietro un fitta nebbia che solo in vista della vetta lascerà posto ad un cielo non completamente azzurro ma certamente stimolante.
La strada si stringe sempre più ad un asfalto sconnesso e poco accattivante, attorno a me soffici nuvole bianche giocano sui pendii scoscesi dei monti nascondendo alla vista parte dell'incredibile patrimonio coloristico che contraddistingue il periodo autunnale, stretti tornanti innalzano al cielo la nera coppia che si crogiola felice al sole del mattino.
Ali di foglie rosse in rispettosa contemplazione si scostano al nostro passaggio sull'umido sentiero sottratto al potere del sole dalle sbarazzine nubi, sostiamo in sbalordita contemplazione della valle sotto una coperta di nebbia apparentemente troppo lontana per essere stata teatro delle nostre gesta pochi minuti fa assaporando il profumo del terreno boschivo bagnato e del consistente aroma dell'autunno Appenninico.
Termina infine il nostro contatto con il grigio asfalto, l'inizio del tratto sterrato segna anche l'inizio della vera avventura, il motivo per cui ho abbandonato letto ed affetti prima dell'alba: dare una concretizzazione ad una sottile linea bianca e tortuosa troppe volte vanamente osservata sulla mia inseparabile mappa.
Adesso tutto cambia, non mi appendo più sull'avantreno della mia Ducati e sposto la mia massa corporea verso il posteriore nell'intento di alleggerirne l'impegno e ridurre la forza dell'impatto con le asperità del terreno, contemporaneamente la solida regolarità di erogazione del Desmo 1100 spinge in avanti Maia mettendo spesso in affanno le discrete (per uso fuoristradistico) Scorpion e disegnando profonde derapate sul fondo sterrato o scivolando in maniera meno divertente sulle foglie umide, comunque caparbiamente diretta verso la ambita vetta.
Non ha in fondo molta importanza l’altezza della cima o del valico, il valore assoluto che teoricamente ne classifica la validità, ha invece assoluta rilevanza l’importanza che esso riveste nella nostra classificazione personale e nella difficoltà e determinazione rilevata e perseguita nel corso del compimento dell’impresa, paradossalmente quindi potremmo affermare che non ci sono differenze tra la conquista della vetta dell’Everest e il passaggio sul Foce a Giovo se non nella fredda logica dei numeri che ne stabilisce la rilevanza altimetrica, entrambe infatti rispondono a parametri valutativi diversi all’interno dei quali ognuna delle due imprese assume rilevanza primaria e relativa soddisfazione personale ed emozionale.
Difficile una volta in vetta osservando il panorama a 360° comprendere immediatamente il significato del disco rosso con contorno bianco sinistramente issato su di un palo all’inizio del sentiero discendente, quel sentiero che avrebbe il compito portare a compimento questa mia impresa e che adesso appare per certi versi impercorribile.
Un senso di arrendevolezza tenta subdolamente di impadronirsi di me, complice la visione di un sentiero oltre il divieto in condizioni poco accattivanti, nel quale aguzzi pietrosi fanno bella mostra di se senza soluzione di continuità se non nei tratti in cui viscidamente scompaiono in estese e limacciose pozze che si perde in lontananza sul fianco della montagna, per un attimo la voglia di tornare indietro sembra avere il sopravvento supportata dal rispetto di quel divieto al quale non vorrei mancare di rispetto….
Ma è tardi, dannazione, è tardi per tornare indietro, è tardi per arrendersi di fronte a ciò che sapevo benissimo avrei potuto trovarmi di fronte quando sono partito, è tardi per cedere alle rimostranze di un logico istinto di conservazione, è tardi per costringermi a riflettere a ragionare e tornare sui miei passi,
già……… tardi da almeno 40 anni!!!!
Il timore che mi abbraccia come al solito non mi costringe a rinunciare all’impresa ma mi costringe a riflettere approfonditamente su quali siano le condizioni migliori per sfidare il passaggio e quali modalità di guida adottare per evitare qualsiasi tipo di contatto diretto con le rocce che si rivelerebbe in ogni caso assolutamente traumatico, consapevole della potenzialità del mezzo che guido e delle stesse mie doti di guida da utilizzare al meglio per superare questo ostacolo fatto di sassi sconnessi, fossi scavati dalle piogge, pozzanghere che sembrano laghetti, pietraie viscide ricoperte da fogliame ancora più scivoloso, certo, potrebbe essere peggio ma per fortuna, per adesso, Giove Pluvio non sembra curarsi di me.
La ritrosia più difficile da superare riguarda la mia caratteriale avversione alla violazione delle regole, ma stavolta non posso rinunciare, non a questo punto, me ne assumo la ovvia responsabilità mentre il classico scatto della leva del cambio segna l’inizio di una nuova avventura e la strada inverte velocemente la pendenza.
Adesso è tutto di nuovo maledettamente chiaro, sono queste le situazioni in cui si palesa, violentemente evidente, il significato del mio amore sviscerato per il viaggio su due ruote, il motivo viscerale del profondo affetto che mi lega alla moto, essa è un supporto importante per il mio errare una imprescindibile amplificazione delle mie potenzialità umane ma non si erge a ruolo di protettrice, non mi racchiude amorevolmente dentro una asfissiante scatola limitando la mia interazione, sia essa negativa o positiva, con l’ambiente circostante, non è una materna e patetica corazza.
Non è solo il mezzo con me alla guida che si avventura sul impervio sentiero rischiando le proprie rigide parti meccaniche proteggendo quelle molli del mio corpo, sono io che mi addentro nell’impraticabile percorso rischiando la mia incolumità e proteggendo quella delle parti meccaniche in quanto indissolubilmente legate a me, sono io che decido e io che rischio in prima persona, la mia identità è fatta salva, non mi sottometto al mezzo meccanico, è il mezzo meccanico che ubbidisce a me consapevole della sua assoluta importanza per la mia incolumità, non padrone e servitore ma bensì mente umana e braccio cibernetico, insieme oltre l’ostacolo, insieme perché non è possibile fare altrimenti.
Sono io in fondo che ho voluto assolutamente arrivare sin qui, io che ho voluto abbeverare la mia anima della bellezza che regna su queste cime solitarie, scoprire nuovi paesaggi fuori dalle rotte conosciute, solo con me stesso ed il silenzio che regna sovrano non per voglia specifica di solitudine ma per preciso istinto egoistico, nella sola preoccupazione delle mie esigenze e delle mie necessità di sicurezza personale, rischiare quanto mi va di rischiare senza obbligare nessuno, senza limitare nessuno…..
Bello rendersi conto che tutte queste profonde riflessioni occupano lo spazio temporale di un battito di ciglia, il tempo di scorrere ancora una volta con lo sguardo il profilo chiaroscuro dei monti e poi non c’è più tempo di pensare, tutte le risorse si dedicano alla guida e alla lotta stressante contro quelle leggi della fisica che negano una stabilità convincente a questo mezzo dotato di un eccessivo peso aggrappato al terreno tramite unghie spuntate e poco avvezze alla comprensione delle diverse condizioni della strada da percorrere.
La velocità di discesa è lenta, non perché l’agilità della moto non lo consenta ma per la consapevolezza della traumaticità di un impatto violento delle affioranti rocce contro una ruota dotata di un poco elastico cerchio in lega, la stessa luce a terra garantita dalle sospensioni stradali e dal 17” anteriore suggerisce prudenza nel superamento dei frequenti fossi scavati dall’acqua che attraversano il sentiero,
Eppure ci muoviamo agili, insieme superiamo i 300 kg di stazza, nonostante ciò le variazioni di direzione imposte dalla mia guida vengono adottate senza eccessive rimostranze, ogni qualvolta lo sterzo anteriore tenta di chiudersi su se stesso e distendere a terra la moto basta la mia decisa volontà di contrasto e Maia torna in traiettoria, un colpo di gas e la pulita erogazione del 1100 mi toglie dall’impiccio.
Spesso gioco di sponda soprattutto nei tratti fangosi, nei cambi di direzione entrambe le gomme perdono aderenza spostando la moto verso l’esterno per ritrovarla poi al limite del sentiero, asciutto compatto e rilevato rispetto al suo centro, mi stò divertendo lo ammetto, adesso madido di sudore nonostante le temperature invernali devo solo stare attento a non farmi prendere la mano, ad illudermi di una leggerezza e un controllo totale che in effetti non ho, contrastare la forza di inerzia dei 300 suddetti chili lanciati ad una velocità troppo elevata potrebbe risultare quanto meno controproducente.
La speranza di un miglioramento del fondo viene continuamente tradita, contemporaneamente perdo completamente la cognizione del tempo e dello spazio, non ci sono riferimenti che mi possono suggerire la ipotetica fine di questa avventura, il sentiero si perde apparentemente infinito sul fianco della montagna e dentro ai boschi, nemmeno sul ponte che segna la fine del sentiero e si affaccia sul nastro di asfalto sembro comprendere, oramai completamente assorto nella guida impegnativa di una Maia sicuramente provata dalla situazione ma ancora una volta dignitosamente al traguardo.
Sono spesso le piccole cose a regalare le gioie più intense, gioia che mi assale imperiosa non appena tace il borbottio del motore e lascio la nera Ducati al supporto del cavalletto laterale, soddisfazione personale infinta che mi abbraccia solida per avere ancora una volta ottenuto ciò che volevo ed era alla mia portata ma che rischiava di sfuggirmi per tanti motivi, emozione per essere arrivato fino a qui nonostante tutto, piccola vittoria personale senza nessun altra ambizione: “un grande passo per un uomo, un inutile passo per l’umanita” J J J
Risalire verso il cielo su di un liscio nastro di asfalto contribuisce a rilassare fisico e mente anche se le condizioni viscide dell'umido asfalto che da Pievepelago porta fino al passo delle Radici richiedono una minima attenzione per esser affrontato in sicurezza, ancora una volta stupito della versatilità di questa moto che torna a danzare leggera sulle curve dopo quanto precedentemente affrontato.
Uno sguardo all'orologio fino ad ora ignorato mi rivela la drammatica realtà, sono in ritardo sulla tabella di marcia ed ancora devo affrontare l'ultimo sconosciuto valico anch'esso sterrato e non riportato su tutte le mappe.
Prima del passo Radici devio a sinistra verso Piandelagotti e poi costeggiando il monte Cusna raggiungo la piccolissima frazione di Monterorsaro teorica partenza del percorso sterrato verso Montecagno e successivamente Ligonchio, Il cacciatore che interpello sulla direzione da seguire non conosce la strada che cerco e mi indirizza verso Villa Minozzo in un prolungamento di percorso che non posso permettermi, affronto quindi il sentiero più probabile ma che non riporta nessuna indicazione confortante così come interrogative le risposte alle mie domande da parte di alcuni camminatori, caparbio ed innervosito dal ritardo spalanco il gas e mi inerpico verso la cima.
La temporanea irritazione unita ad una sottovalutazione del sentiero in funzione di una minore difficoltà rispetto al valico del Giovo mi porta ad esagerare vistosamente con la manopola del gas imponendomi rischi troppo elevati evidenziati da momenti esageratamente adrenalinici, per fortuna la ragione torna presto padrona del polso destro e la Multistrada torna tranquillamente a risalire la nuova frontiera.
Sul valico le condizioni meteo peggiorano improvvisamente, appena il tempo di indossare antipioggia per me e per la borsa serbatoio che contiene la reflex e viene giù il finimondo, la lunga discesa verso valle altrimenti poco impegnativa si rivela incredibilmente difficoltosa a causa del torrente che poco dopo si trova a scorrere su quella che una volta era la strada e che adesso accoglie le mie ruote.
Lo sguardo allibito del cacciatore rinchiuso al sicuro nel suo fuoristrada basta da solo ad dare il senso della situazione che stò affrontando, per fortuna anche stavolta riesco a raggiungere la sicurezza del nastro di asfalto senza cedere alle scivolose offerte del solito fogliame viscido e traditore ma accompagnato dal continuo piovigginare e da un leggero senso di smarrimento dovuto alla remota sensazione di avere sbagliato strada.
Il successivo piccolo gruppo di case di pietra perfettamente restaurato non ha nessun cartello al suo ingresso ed il suo intrico di viuzze risulta di non facile interpretazione, imprescindibile a questo punto la sosta in un bar che rappresenta una sorta di miraggio per la sua contemporanea conformazione incompatibile con il contesto che lo circonda.
"Per favore un caffè e due domande: dove siamo?? e come diavolo si esce da questo paese???"
Sentire rispondere "Montecagno di Ligonchio" è fonte di una gioia incredibile, sono finalmente arrivato alla meta, di nuovo in sella abbandono le antiche case grazie alle indicazioni del barista per ricongiungermi con un gruppo a Ligonchio in moderata apprensione per un ritardo, il mio, che ormai tendeva ai 60 minuti....
in parata percorriamo il tratto che ci separa dal giusto ristoro e dal meritato riposo, almeno per quanto mi riguarda, felicemente stanco ed ancora una volta saturo di intense emozioni vissute in sella.
Il report e le foto del pranzo:
Autunno tra Garfagnana e Appennino - Edizione 2008